Almamegretta



Alfieri del dub italiano, gli Almamegretta (latino volgare per “anima migrante”) sono riusciti a traghettare i suoni sporchi e oscuri del trip-hop nel Mediterraneo, in un (apparentemente) impossibile crocevia tra Bristol, la Giamaica, Napoli e il Maghreb.

A formare il nucleo iniziale della band è Gennaro Tesone (Gennaro T, alla batteria) insieme a Giovanni Mantice (Orbit, alla chitarra), Gemma Aiello (al basso) e Patrizia Di Fiore (alla voce). Dopo una discreta gavetta nei locali di Napoli, tra cui lo storico Diamond Dogs, all’insegna di un rhythm’n’blues psichedelico con testi in inglese, gli Almamegretta si aggiudicano il primo Concorso Nazionale Gruppi Musicali Di Base – Rock Ottantotto, tenutosi presso la discoteca Marabù Music Hall di Reggio Emilia, con il brano “What My Brother Said”. Quasi immediatamente, però, Patrizia Di Fiore abbandona la compagnia; dopo la defezione, Gennaro T e Mantice riformano il gruppo nel 1991, con l’inserimento di Gennaro Della Volpe (Raiz) alla voce, proveniente da una formazione beat/ska e, tramite questi, di Paolo Polcari (Pablo) alle tastiere. Con Raiz inizia il lavoro di traduzione dei testi in italiano e di ri-arrangiamento dei pezzi attraverso una originale formula sonora fatta di dub, reggae, funk elettronica e pop, immersa nel crogiuolo della musica popolare del Meridione, napoletana in particolare. Al gruppo si aggiunge anche Massimo Severino al basso, e con questa formazione gli Almamegretta partecipano all’edizione 1991 di Arezzo Wave.

Figli di Annibale

Anche Severino, però, lascia subito, rimpiazzato da Tonino Borrelli: è lui il bassista che compare nel primo Ep Figli di Annibale (1992), il disco che impone gli Almamegretta come uno dei nomi di punta del fertile laboratorio italiano degli anni 90. Quattro brani registrati in cinque giorni, la cui trascinante title track farà parte della colonna sonora del film di Gabriele Salvatores “Sud” (1997).

Ma la consacrazione arriva l’anno successivo con Animamigrante (1993), album prodotto da Ben Young, dove appaiono già evidenti le molteplici influenze da ogni angolo del mondo, tradotte con naturalezza in un efficace dialetto partenopeo, che si trasforma così in linguaggio universale. Al basso entra Mario Formisano, bassista dub-funky napoletano conosciuto anche con il nome d’arte “4mx” assegnatogli dallo stesso Raiz. Il disco, che segna l’incontro con D.RaD (Stefano Facchielli) e unisce nuove composizioni alle tracce dell’Ep, si aggiudica la Targa Tenco come miglior album d’esordio dell’anno.
A colpire è soprattutto il canto magnetico di Raiz, fin dall’arringa iniziale di “‘O Bbuono E ‘O Malamente”, imbastita in un ideale processo davanti a una giuria. Una denuncia sociale di degrado e abbandono: “Ije so’ nato e so’ cresciuto ind’a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera, senza ‘na lira annanz’a televisione che te dice nun sì ommo si nun tiene ‘o macchinone… e allora che vulite si vengo a cucaina si voglio magnà pur je sera e matina”.
L’intento di denuncia si rinnova tra i solchi del disco, spaziando da un inno al Meridione in “Suddd” a una sarcastica, dirompente “Fattallà” che mette nel mirino ogni forma di razzismo e discriminazione. C’è anche spazio per la storia, con le guerre puniche di “Figli di Annibale”, con cui Raiz teorizza la nostra discendenza africana.
L’intero album è un viaggio nel cuore del Mediterraneo, scandito da bassi dub nel solco di un reggae narcotico e nevrotico al contempo. Un meticciato sonoro che punta alla creazione di una “musica totale”, abbattendo confini e barriere stilistiche.

Se l’esuberante energia di “Fattallà”, il brano di punta di Animamigrante, regala alla band il primo successo commerciale, è con Sanacore (1995) che arriva la il grande successo, grazie anche all’apporto delle atmosfere elettroniche, cupe e ovattate della musica dub di Adrian Sherwood, celebre produttore della On-U Sound londinese.
Ma Napoli continua a essere l’epicentro della loro musica, il centro di gravità fortemente voluto e che non accetta d’essere messo in discussione, magari contaminato con dense sonorità arabeggianti e mediterranee, in brani come “Maje”, “Pe dint’e viche addò nun trase ‘o mare” e “O Sciore Chiu Felice” (con i fiati in grande spolvero). Anche la title track è immersa nella più pura tradizione folk napoletana, in bilico tra tammurriata e raggamuffin, con i ricami suadenti del flauto di Daniele Sepe e una voce storica della tradizione partenopea come Giulietta Sacco.
Ma è anche il ritmo a imprimere un solco decisivo al disco, tra bassi dub e pulsazioni funk-rock, come “Ammore Nemico“, “Sciosce Viento” e “Ruanda“, canzoni fortemente ibride e ipnotiche, in cui a salire in cattedra è soprattutto il batterista Gennaro T. Bassi il cui drumming rimbomba in una muraglia di tastiere nell’altro numero dub di “Se stuta o’ fuoco“, oltre che nella conclusiva “Tempo”, altro tumultuoso pastiche di stili, ritmi e timbri dal sapore mediterraneo.
Il capolavoro assoluto del disco è però la struggente “Nun te scurda’”, ballata reggae imbottita di elettronica, in cui Raiz canta in prima persona da un punto di vista femminile, raccontando la storia di una donna che esprime la sua voglia di amare in maniera libera e che si ribella agli stereotipi di “mamma, puttana o brutta copia ‘e n’ommo”. Un testo che testo nasce dai racconti del dopoguerra che il cantante aveva ascoltato dalla nonna e della madre, a proposito di questa donna che per il suo legittimo desiderio di amare e avere molti uomini viene bollata come puttana. Un brano che incarna la sintesi perfetta del tentativo della formazione partenopea di mettere insieme la canzone napoletana e il reggae, senza snaturare né l’una né l’altro. Il video di “Nun Te Scurda’”, che sarà anche il singolo tratto dall’album, verrà girato dal regista Pappi Corsicato.
A colpire, sono anche i testi degli Almamegretta, sicuramente più intricati e complessi di quelli di “cugini” raggamuffin come i 99 Posse. Testi che spaziano dalla denuncia del razzismo e delle prevaricazioni del potere all’immigrazione e alla religione, senza mai cedere alla retorica facile da slogan studentesco.
Sanacore frutterà alla band un’altra Targa Tenco, stavolta per il Migliore album in dialetto.


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